Ti sei mai accorto che ogni autore ha le proprie parole preferite? A volte si tratta di avverbi, altre volte sono aggettivi, magari di uso poco comune.
Se affrontiamo un libro da lettori forse non ce ne accorgiamo ma, se lo traduciamo, il rapporto con il testo diventa così intimo che alla fine possiamo stilare la lista delle parole preferite dello scrittore.
Nel romanzo americano del 1924 che stiamo traducendo adesso, ad esempio, la stessa parola ricorre per ben 4 volte in poche pagine. Qui la protagonista, finita in miseria, va con il carretto al mercato di Chicago a vendere i prodotti dell’orto per ripagare i debiti. È la prima volta che lo fa, e oltretutto non è un lavoro per donne, perciò è visibilmente agitata. Gli uomini del mercato, invece, esperti del mestiere e navigati negli affari, sono descritti come shrewd o con occhi shrewd (astuti, scaltri). Si tratta di una parola non molto usata e ovviamente il fatto che compaia così spesso in poche pagine ci ha colpito subito.
Altre volte la parola che ricorre più spesso è di uso molto più comune: nei Diari di viaggio di Virginia Woolf che abbiamo tradotto di recente, ad esempio, la parola soft ci ha dato non pochi grattacapi, perché a seconda dei contesti può assumere mille significati diversi: morbido, delicato, duttile, debole, tenue, lieve, sommesso, fioco, soffuso, gentile, tenero, sensibile, permissivo, indulgente e moltissimi altri ancora. (Per i curiosi, tra le altre parole preferite di Virginia sono emerse anche fragile ed emphatic, ma le occorrenze sono poche: la sua ricchezza di vocabolario è impressionante.)
Che cosa può fare il traduttore letterario quando si imbatte ripetutamente nella parola preferita dell'autore? Può scegliere se restituire in italiano la sua particolare inclinazione per quel termine, utilizzando sempre lo stesso traducente (usare "scaltro" ogni volta che incontra la parola shrewd), oppure impiegare tutta la gamma dei sinonimi: scaltro, astuto, furbo, accorto, avveduto, sagace, e chi più ne ha più metta, grazie a un buon dizionario.
A monte di questa decisione c'è sempre una riflessione da fare: quella data parola è frutto di una scelta consapevole dello scrittore oppure no? Può darsi che la scelta sia intenzionale perché lo scrittore vuole sottolineare, ad esempio, come tutti gli uomini del mercato fossero "scaltri" mentre la povera protagonista non lo era. O forse si tratta di un vezzo linguistico: usa "scaltri", ma avrebbe potuto usare indifferentemente uno dei sinonimi.
A noi spetta dunque questa scelta difficile (tanto più nel caso di autrici, come le nostre, già defunte da tempo: agli scrittori viventi potremmo porre direttamente la domanda!). Basandoci sulla conoscenza dell'autore e del testo su cui stiamo lavorando, se ci sembra che la scelta della ripetizione sia intenzionale, e se in italiano è possibile farlo, cerchiamo di mantenere sempre lo stesso traducente.
Tuttavia, non è detto che sia sempre possibile farlo: una parola inglese può essere tranquillamente usata in più contesti diversi che magari in italiano non tollerano l'uso dello stesso traducente. È il caso di Virginia Woolf con soft: non è stato possibile scegliere un traducente e poi usare sempre quello, perché una volta era l'aria a essere soft, un'altra un riquadro (questo ci ha dato qualche problema...), un'altra ancora la terra, e lo stesso termine non funzionava dappertutto. Così, abbiamo scelto di perdere qualcosa per ottenere qualcos'altro: abbiamo perso la ripetizione della parola tale e quale, ma abbiamo guadagnato nella resa del testo. Come spesso accade, il traduttore letterario è un funambolo in bilico tra rigore e flessibilità.
Quali sono le parole preferite dei tuoi autori? E se sei un traduttore editoriale, quali strategie usi per tradurle?
Leggendo Malastagione di Francesco Guccini e Loriano Macchiavelli mi è venuto in mente il vostro post: ricorre spessissimo il verbo borbottare, peccato non avere contato tutte le occorrenze!
RispondiEliminaChe fosse lo stratagemma per uniformare lo stile dei due autori?!? Scherzi a parte, mi sembra di aver letto che Guccini e Macchiavelli non hanno scritto a quattro mani ma si sono suddivisi i capitoli, e se così fosse è stato fatto un buon lavoro perché non si notano particolari "stacchi" tra un capitolo e l'altro.
Per chi non lo conoscesse, il romanzo è un giallo dalla lettura leggera e piacevole, perfetto per un viaggio in treno.
Ciao Licia,
RispondiEliminache piacere risentirti! Quello che ci scrivi è la riprova del fatto che ogni scrittore ha un vezzo... e che lo si nota di più quando la parola è di uso non proprio comune, come "borbottare".
Non ho letto Malastagione, ma pensando a Guccini, che è stato uno dei miei (di Francesca!) cantanti preferiti nell'adolescenza, trovo che gli si addica molto...
A suo tempo avevo letto invece il primo romanzo di Guccini, Cròniche epafàniche, che mi era piaciuto anche perché ispirato, sia per la lingua, sia per i temi trattati, all'Appennino tosco-emiliano, a cui sono molto legata anch'io.
Adesso mi hai fatto venire voglia di leggere anche Malastagione: è bello che i libri diventino "virali".
A presto e buone letture!
Anche a me Cròniche epafàniche era piaciuto molto, specialmente i dettagli e l'uso della lingua; Malastagione invece appartiene alla categoria "libri per distrarsi".
RispondiEliminaBuono a sapersi, lo terremo da parte per un sabato piovoso...
RispondiEliminaA presto!